giovedì 20 gennaio 2011

CIRCA UN ANNO FA

Con il presidio dei lavoratori del 18 gennaio 2010 la crisi del gruppo Burani assumeva una dimensione definitivamente pubblica sconvolgendo una comunità che aveva sempre visto nella famiglia Burani un esempio di imprenditori di successo vicini alle esigenze dei lavoratori e del territorio. Così non era. A distanza di circa un anno, nelle prossime settimane, proveremo a raccogliere qualche testimonianza da lavoratori e organizzazioni sindacali per provare a capire come vanno le cose all'interno dell'azienda e quali sono le prospettive.

Intanto pubblichiamo l'articolo che segue. L'articolo originale dal titolo originale "Parmalat, metafora del capitalismo italiano", di Nicola Melloni su Liberazione di oggi, è stato leggermente modificato.

Mariella Burani Fashion Group, metafora del capitalismo italiano

Mariella Burani Fashion Group, metafora del capitalismo italiano

Il caso Mariella Burani Fashion Group offre uno spaccato interessante ed istruttivo sui cambiamenti che hanno caratterizzato il capitalismo negli ultimi trent'anni. Un capitalismo che in Occidente si è via via spostato dal settore produttivo a quello finanziario, emarginando il lavoro ed intaccando il tessuto sociale delle democrazie emerse dal secondo conflitto mondiale. In questo contesto le banche sono emerse come nuovo soggetto dominante, soprattutto nel mondo anglosassone e questo ha modificato drammaticamente il rapporto tra finanza ed industria. L'enorme massa di liquidità formatasi sui mercati internazionali ha fatto sì che le istituzioni finanziarie si siano trasformate da intermediari in investitori, in molti casi assumendo il controllo indiretto delle imprese. Grazie alla mobilità e alla flessibilità del capitale, questi grandi investitori hanno imposto all'industria la necessità di concentrare i propri sforzi nella massimizzazione del valore di breve periodo delle azioni, drogando il mercato oltre ogni limite.

Il capitale finanziario si è mosso in maniera vorticosa, ricercando le possibilità di guadagno più facili ed immediate, ma dimenticando che gli obiettivi economici delle imprese non possono giudicarsi solamente sul valore corrente della capitalizzazione. Anzi. L'investimento industriale, soprattutto quello innovativo, è necessariamente una scommessa sul futuro, ma non c'è futuro per il capitale speculativo che vive solo sul presente.
Lo strapotere dell'industria finanziaria ha modellato a sua immagine e somiglianza il nuovo capitalismo neo-liberale, cancellando il compromesso capitale-lavoro su cui si fondavano le democrazie occidentali. Redistribuendo una parte del profitto dalle imprese ai lavoratori si aumentava il potere di acquisto dei cittadini (che quindi sostenevano le vendite dell'industria) e si permetteva la riproduzione delle relazioni di produzione in un contesto di relativa pace sociale. Nel nuovo ordine economico, invece, il lavoro è diventato solamente un costo da comprimere il più possibile.

Si tratta di un sistema fortemente antidemocratico che stravolge le relazioni sociali di produzione e ha portato, come abbiamo visto in questi anni, alla dittatura del mercato. Un sistema con dei costi sociali immensi e che si porta dietro l'instabilità economica, la speculazione finanziaria ed i crolli ad essa associati.
Questo tipo di organizzazione economica comporta un altro rischio, quello della corruzione: in una situazione in cui il tipo di incentivi porta a gonfiare artificialmente i guadagni di breve periodo, il rischio di operazioni fraudolente è sempre presente.

Certo, i furti e gli aggiotaggi avvengono anche negli Stati Uniti, dove però esiste un sistema sanzionatorio che cerca di riequilibrare la naturale tendenza del sistema alla violazione delle regole. In Italia, dove le regole sono costantemente ignorate, è l'intera organizzazione economica ad essere bloccata dalla cancrena della corruzione. Si tratta di una forma di capitalismo drammaticamente arretrato, da periferia del mondo industrializzato. E' un capitalismo basato sulle relazioni personali e non su quelle di mercato, impersonali per definizione; un modello economico in cui i piccoli risparmiatori vengono sfruttati e lasciati sul lastrico senza nessuna possibilità di difendersi. Un sistema che porta agli eccessi che sono sotto gli occhi di tutti, dai furbetti del quartierino ai palazzinari, tutti membri di quel paludoso intreccio di interessi tra finanza, industria e politica che crea oscuri giochi di potere. Un obbrobrio che ha come suo epifenomeno più visibile il conflitto d'interessi ma che non si limita certamente a Berlusconi e alla sua maleodorante truppa di faccendieri, avvocati, nani e ballerine. In Italia manca da sempre una cultura dignitosamente liberale e borghese: imprenditoria e politica sono sempre andate a braccetto per salvaguardare i propri interessi e le banche sono divenute lo strumento privilegiato di questa orgia di potere. La concentrazione finanziaria ha generato anche la concentrazione del potere, ed un potere politico-economico monopolistico senza regole e contrappesi è l'anticamera della dittatura. Un capitalismo corrotto non può che produrre un sistema politico corrotto. Come direbbe Marx, le relazioni di produzione determinano la propria sovrastruttura politica ed il corrispondente tipo di coscienza sociale. Credere che si possano risolvere i problemi dell'Italia con la sola cacciata di Berlusconi - cosa per altro indispensabile - sarebbe dunque illusorio e deleterio. Di cambiamenti ben più profondi ha bisogno il nostro paese.

1 commento:

marco capitanio ha detto...

Sono d'accordo con voi sullo stato capitalista senza regole in cui viviamo almeno in altri paesi anche europei si cerca di dividere nella polpolazione anche se in piccola parte, il potere di comperare dei mezzi di prodotti.saluti e buona continuazione